Nobel per la Fisica 1969


Murray Gell-Mann nasce a New York il 15 settembre 1929, da due emigrati austriaci, Arthur Gell-Mann e Pauline Reichstein. Il padre era proprietario di una scuola di lingue e un cultore di matematica, fisica e astronomia. "[Mio padre] era venuto negli Stati Uniti dall’Austria-Ungheria nei primi anni del secolo, interrompendo gli studi all’Università di Vienna; voleva fra l’altro aiutare i suoi genitori, che, arrivati da qualche anno a New York, avevano difficoltà a tirare avanti. Trovò lavoro in un orfanotrofio di Filadelfia, dove imparò dai ragazzi l’inglese e il baseball. Pur non essendo più un ragazzino quando cominciò a studiare l’inglese, acquistò ben presto una perfetta conoscenza della lingua. Quando lo conobbi, l’unica cosa da cui si potesse sospettare un’origine straniera era che non faceva mai errori. Dopo avere esplorato varie opportunità di carriera, negli anni venti mio padre puntò sulla Arthur Gell-Mann School of Languages, nella quale si ingegnava di insegnare ad altri immigrati a parlare un buon inglese. Dava anche lezioni di tedesco, e assunse docenti per il francese, lo spagnolo, l’italiano e il portoghese. La scuola ebbe un discreto successo, ma la situazione mutò bruscamente nel 1929, l’anno della mia nascita. In quell’anno non ci fu solo il crollo della borsa, ma entrò in vigore una legge che limitava drasticamente l’immigrazione negli Stati Uniti. Da allora si ridusse in proporzione anche il numero dei potenziali allievi di mio padre, impoveriti oltretutto dalla Depressione, e così, quando avevo tre anni, la scuola chiuse i battenti e il babbo, per sfamarci, si dovette accontentare di un lavoro da travet in una banca. Io crebbi con l’idea che il periodo prima della mia nascita doveva essere stato un tempo di grande prosperità".1

Un ragazzo curioso
Gell-Mann mostra da subito un’intelligenza prodigiosa e, sotto la guida del fratello maggiore Ben, una grande curiosità per il mondo della natura. "Devo la maggior parte della mia prima educazione a mio fratello Ben, che è di nove anni più vecchio di me. Fu lui a insegnarmi a leggere quando avevo tre anni (con l’aiuto di una scatola di crackers Sunshine) e a introdurmi all’osservazione di uccelli e mammiferi, alla raccolta di esemplari botanici e alla collezione di insetti. Vivevamo a New York, più precisamente a Manhattan, ma lo studio della natura era possibile anche là. In fondo New York era per me come una foresta di abeti che fosse stata disboscata un po’ troppo; ne rimaneva un angolino nel Bronx, subito a nord dello zoo, e lì noi trascorrevamo la maggior parte del nostro tempo".2
La sua precocità viene presto riconosciuta, e a otto anni è trasferito dalla scuola pubblica del quartiere a una scuola speciale per ragazzi superdotati, che trova "molto noiosa" nonostante i suoi voti siano eccellenti. Si appassiona solo ai testi di matematica e storia, che studia per conto suo, e si diverte a giocare a football. Ma soprattutto continua ad esplorare il mondo della cultura insieme al fratello. "Ben e io eravamo desiderosi di capire e conoscere il mondo nella sua totalità, non frammentato in modo più o meno arbitrario. Non facevamo allora distinzione tra le scienze naturali, le scienze sociali e comportamentali, le discipline umanistiche e artistiche. [...] A volte visitavamo i musei, ad esempio il Metropolitan Museum of Art con la sua splendida collezione archeologica, e ci piacevano anche le testimonianze del Medioevo europeo (provenienti per esempio dai monasteri). Leggevamo libri di storia, e imparammo persino a leggere qualche iscrizione in geroglifici egizi. Studiammo, per divertimento, la grammatica latina, quella francese e quella spagnola e notammo che molte parole francesi e spagnole discendevano dal latino (e neppure erano infrequenti i ‘prestiti’ dal latino all’inglese). Leggemmo libri sulle lingue indoeuropee e apprendemmo che molte parole latine, greche e anglosassoni hanno un’origine comune, con leggi di trasformazione abbastanza regolari. [...]
Divoravo inoltre volumi di racconti, e assieme a Ben mi dedicai pure alla lettura di poesie. A volte andavamo ai concerti, persino al Metropolitan Opera House, ma eravamo squattrinati e quindi di solito dovevamo accontentarci di approfittare di spettacoli e opportunità gratuiti. Tentammo di strimpellare il pianoforte e cantavamo arie di opere, oltre alle canzoni delle commedie musicali di Gilbert e Sullivan".3

La scoperta della fisica
Nonostante le esperienze condivise con il fratello, grande appassionato di fisica e di matematica, è il padre a influenzare la sua scelta universitaria. "Nel modulo per l’ammissione a Yale, durante l’ultímo anno di liceo, dovetti indicare la materia principale. Quando dissi a mio padre della mia intenzione di studiare archeologia o linguistica, egli ebbe una reazione frustrante, dicendo che sarei morto di fame. Studiassi piuttosto ingegneria. Risposi che avrei preferito morire di fame e dissi inoltre che qualsiasi cosa avessi progettato sarebbe probabilmente crollata. (In seguito, dopo un test attitudinale, l’indicazione fu: "Tutto tranne l’ingegneria!") Mio padre suggerì allora, come soluzione di compromesso, lo studio della fisica. Gli ricordai che il corso di fisica che avevo seguito al liceo era stato il più noioso in assoluto, e che l’unica materia in cui ero andato male era proprio la fisica. Avevo dovuto imparare a memoria cose come i sette tipi di macchine semplici: la leva, la vite, il piano inclinato e via dicendo. Altrettanto deludente era stato lo studio di meccanica, calore, suono, luce, elettricità e magnetismo, presentati senza il minimo accenno a una qualche connessione tra questi argomenti. Mio padre tralasciò allora le considerazioni di carattere economico per lanciarsi in una difesa della fisica sulla base delle sue attrattive intellettuali ed estetiche. La fisica avanzata, disse, era ben altra cosa dal corso del liceo e sicuramente anch’io avrei finito con l’appassionarmi a temi come la relatività (ristretta e generale) e la meccanica quantistica. Decisi di assecondare il vecchio, tanto avrei sempre potuto cambiare il piano di studi se e quando fossi arrivato a New Haven. Una volta là, però, la pigrizia mi impedì di compiere una virata repentina, cosicché mi trovai ben presto preso all’amo. La fisica teorica cominciò a piacermi: il babbo aveva visto giusto sulla relatività e sulla meccanica quantistica. Studiandole, cominciai a capire che la bellezza della natura si manifesta non solo nel richiamo di una strolaga o nelle tracce di bioluminescenza lasciate di notte dalle focene, ma anche nell’eleganza dei principi fondamentali della fisica".4
Ammesso alla Yale University a soli 15 anni, Gell-Mann vive un momento di grande incertezza rispetto a se stesso e alle proprie capacità: "Il fatto di essere il più giovane di tutti mi feriva particolarmente perché il mio carattere non era ancora completamente formato". Nel 1948, a 18 anni, consegue il B.S. e ottiene una borsa di studio al Massachusetts Institute of Technology. Lì, sotto la guida di Victor Weisskopf, brillante professore ed ex presidente della American Physical Society, entra finalmente nel vivo della fisica teorica, vedendo per la prima volta dei fisici professionisti al lavoro. Nel gennaio del 1951 completa il suo Ph.D. ed entra, sempre grazie a una borsa di studio, all’Institute for Advanced Study di Princeton. L’anno successivo si sposta all’Istituto di fisica nucleare dell’Università di Chicago dove, a soli 23 anni, comincia la sua carriera di docente universitario e lavora con giganti della fisica come Willard F. Libby, Harold C. Urey ed Enrico Fermi. "Fermi era il mesone che teneva insieme l’Istituto", dice Gell-Mann ricordando le riunioni settimanali fra il personale accademico, in cui si discutevano accanitamente questioni di fisica teorica.

Ordine fra le particelle
Nei primi anni ’50, la fisica delle particelle era alla ricerca di un quadro teorico che permettesse di riportare l’ordine nel caos creato dalla scoperta di un centinaio di nuove particelle subatomiche, resa possibile dagli esperimenti con gli acceleratori di nuova concezione. Per spiegare il comportamento di alcune delle nuove particelle, che sembravano non ubbidire completamente né alle leggi dell’interazione forte né a quelle dell’interazione debole (le quali, assieme all’elettromagnetismo e alla gravità, costituiscono le quattro forze fondamentali della natura), Gell-Mann introduce il concetto di "stranezza".
Partendo dal concetto di "indipendenza dalla carica", innanzitutto raggruppa insieme particelle che hanno le stesse caratteristiche e differiscono solo per la carica elettrica. Per esempio il protone - che ha una carica pari a +1 - e il neutrone - che ha una carica pari a 0 - vengono considerati due varietà di una stessa particella, detta "nucleone", che ha una carica media (o "centro di carica") pari a +1/2. Secondo lo stesso principio, molte particelle possono essere riunite in coppie ("doppietti"), in gruppi di tre ("tripletti") o, più in generale, in "multipletti". Per far rientrare in questo schema di classificazione anche le particelle "strane" - per lo più create in laboratorio dalla collisione ad altissima velocità di altre particelle - Gell-Mann identifica una loro proprietà comune, che definisce appunto "stranezza" (un numero pari al doppio della differenza fra il centro di carica di un multipletto e +1/2). La stranezza viene conservata in tutte le interazioni governate dalla forza forte, e ciò permette a Gell-Mann di predire l’esistenza di numerose particelle strane: "Ho previsto che i fisici sperimentali ne avrebbero trovate alcune, e che non ne avrebbero trovate altre. E le mie previsioni si sono rivelate esatte: hanno individuato tutte le particelle che avevo previsto e nessun’altra".
Nel 1954 Gell-Mann passa un semestre alla Columbia University e nel 1955, dopo un periodo di ricerca all’Institute for Advanced Study di Princeton, viene definitivamente assunto - come professore associato prima e come ordinario poi - al California Institute of Technology, dove è tuttora professore emerito di fisica teorica.
Nel 1961, utilizzando una branca della matematica nota come teoria dei gruppi di simmetria, concepisce un sistema di classificazione delle particelle ancor più generale, in cui le particelle vengono raggruppate in "famiglie", descritte da otto numeri quantici che ne definiscono caratteristiche e proprietà comuni. Gell-Mann chiama questo schema "l’ottuplice via", con esplicito riferimento alle otto virtù necessarie a raggiungere l’armonia nella religione buddista.
Poco dopo il fisico israeliano Yval Ne’eman giunge indipendentemente a proporre uno schema simile.
La teoria dell’ottuplice via viene spesso paragonata per importanza alla tavola periodica degli elementi, con la quale il russo Dmitri Mendeleev ha rivoluzionato la chimica moderna raggruppando i singoli elementi in famiglie dotate di proprietà comuni. Così come Mendeleev aveva lasciato alcuni spazi vuoti nella sua tavola, prevedendo le proprietà dei nuovi elementi che sarebbero stati scoperti, Gell-Mann predice la scoperta di un certo numero di particelle con le proprietà necessarie a riempire gli spazi vuoti in alcune delle sue famiglie, e raccomanda la costruzione di acceleratori di particelle più potenti per ottenere le necessarie conferme in laboratorio. E nel 1964 viene scoperta la particella "omega-minus", con una massa praticamente identica a quella prevista dalla teoria.

I quark
Per la teoria dell’ottuplice via nel 1969 Gell-Mann vince il premio Nobel per la Fisica, ma fra i non addetti ai lavori egli è ancora più famoso per aver scoperto i quark, i componenti fondamentali di tutta la materia. Nel 1963, mentre era al Massachusetts Institute of Technology, scopre che la struttura dell’ottuplice via può essere spiegata ipotizzando che nelle profondità della struttura atomica - oltre il nucleo, e oltre i neutroni e i protoni - vi siano altre particelle ancor più elementari, ciascuna dotata di una frazione della carica elettrica del protone. La stessa scoperta viene fatta in maniera indipendente dal fisico americano George Zweig, al CERN di Ginevra (il Laboratorio Europeo per la fisica delle particelle).
Ribellandosi alla tendenza prevalente di battezzare le nuove particelle subatomiche con lettere dell’alfabeto greco, Gell-Mann le chiama "quark", traendo il nome dal racconto Finnegans Wake di James Joyce. "La parola mi era sembrata perfetta per descrivere l’essenza della materia. E mi sembra ancora tale: non riesco a immaginare che i quark possano chiamarsi in un altro modo".
Gell-Mann ipotizza l’esistenza di sei tipi di quark, e con la sua proverbiale stravaganza li battezza "up" e "down", "top" e "bottom", "charm" e "strange". Si ritiene che solo due tipi di quark esistano in natura: l’up e il down, mentre i quark top, bottom, charm e strange sono esistiti solo per una frazione infinitesimale di secondo dopo il Big Bang, alla nascita dell’universo. Tuttavia essi possono essere creati artificialmente con dei potenti acceleratori, che possono quasi riprodurre il Big Bang "sparando" fasci di particelle gli uni contro gli altri a velocità vicine a quelle della luce. Una volta ogni cinque o dieci miliardi, queste collisioni producono dei quark. Sfortunatamente, essi non durano a lungo, solo un trilionesimo di trilionesimo di secondo, prima di trasformarsi in particelle più leggere. "In realtà, quello che si può osservare non è neanche un quark, ma solo lo stato nucleare che lo contiene", dice Gell-Mann. "I quark sono sempre confinati dentro ad altri oggetti".
Ancora una volta, la teoria di Gell-Mann viene puntualmente confermata dagli esperimenti con gli acceleratori di particelle, anche se per osservare in laboratorio l’ultimo quark, il top, bisogna aspettare fino al 1994. Un fisico canadese ha descritto la ricerca del top quark come "un tentativo di ricostruire un’automobile dei giorni nostri fra un milione di anni: dopo aver riunito insieme con successo i pochi frammenti rimasti, e cercando di immaginare ciò che mancava, gli scienziati del futuro potrebbero arrivare ad ipotizzare che il veicolo si muovesse su ruote. Ma mancando le ruote, la loro intera ipotesi apparirebbe sospetta". "Senza il top quark", afferma Gell-Mann, "l’intera teoria vacillava".

Gli studi sulla complessità
A partire dagli anni ’80 le ricerche di Gell-Mann si estendono oltre i confini dei laboratori di fisica, per comprendere una visione più ampia dell’universo.
Assieme ad altri scienziati ed esperti di discipline diverse nel 1984 fonda il Santa Fe Institute, un istituto di ricerca sulla complessità alle porte di Los Alamos, nel New Mexico. "Il Santa Fe Institute riunisce matematici, informatici, fisici, neurobiologi, immunologi, biologi dell’evoluzione, archeologi, linguisti, economisti, studiosi di ecologia e di scienze politiche, storici e tanti altri. Ciò che li accomuna è la capacità di interagire gli uni con gli altri: molti grandi scienziati ed accademici non chiedono di meglio che di uscire dai confini della propria disciplina, ma non riescono a farlo così facilmente all’interno della propria istituzione. Non abbiamo voluto che il nostro istituto sorgesse vicino ad Harvard o a Stanford, dove è enorme la pressione delle idee consolidate, idee accettate da un’intera comunità e pertanto difficili da sfidare. A Santa Fe possiamo pensare e parlare liberamente, costretti solo dal bisogno di fare i conti con la realtà".
Al Santa Fe Institute Gell-Mann e i suoi colleghi studiano, da un punto di vista interdisciplinare, "il significato di semplicità e complessità, i modi in cui la complessità emerge e il comportamento dei sistemi complessi adattativi, insieme alla caratteristiche che li distinguono dai sistemi non adattativi".
Gell-Mann battezza questa nuova materia plectica, dal greco plectós, "ritorto, intrecciato", una parola che deriva dalla stessa radice del latino complexus, originariamente "intrecciato insieme".
Il successo della teoria della complessità, che esplora i modi in cui la particella più infinitesima dell’universo è strutturalmente interrelata ai più complessi sistemi viventi, deve molto al prestigio personale e alla rete di contatti di Gell-Mann. Un giornalista del New York Times descrive così l’atmosfera dell’istituto, scherzosamente definito "la mecca della complessità": "Ogni anno 200 ricercatori di discipline diverse camminano fra le 35 stanze e le poche aule convegni, tutte ingombre di computer e libri; vanno su e giù per le scale e i cortili, raggruppandosi per discutere questo o quel problema, in una sorta di continua dimostrazione intellettuale ad alto livello, fra scambi di appunti e simulazioni al computer. Come gli altri, Gell-Mann va in giro ascoltando e intervenendo nei discorsi degli altri ricercatori, ma il suo ruolo è del tutto speciale: con la sua conoscenza sterminata, costituisce un utile ponte fra discipline che usano concetti e linguaggi diversi e fra loro incomprensibili".
A chi gli chiede conto dei risultati ottenuti al Santa Fe Institute, Gell-Mann risponde: "Naturalmente, il vero obiettivo è la verifica, la capacità di prevedere cose che poi si rivelano vere. Per il momento non abbiamo molto da mostrare, ma lo avremo. Dovete essere pazienti, e aspettare una ventina d’anni".
La teoria della complessità, insieme a molte altre, è illustrata da Gell-Mann nel suo libro Il quark e il giaguaro. Avventure nel semplice e nel complesso, apparso nel 1994 e pubblicato in italiano da Bollati Boringhieri nel 1996. "Ho tratto il titolo di questo libro da una poesia del mio amico Arthur Sze, splendido poeta americano di origine cinese che vive a Santa Fe [...]. La poesia dice: ‘Con il mondo dei quark tutto ha in comune/il giaguaro furtivo nella notte’. 5  I quark sono particelle elementari, gli ingredienti del nucleo atomico. [...] Il giaguaro rappresenta per contro la complessità del mondo che ci circonda, specialmente quando si manifesta nei sistemi complessi adattativi. Prese assieme, queste due immagini, il quark e il giaguaro, mi sembrano esprimere perfettamente i due aspetti della natura che io chiamo ‘il semplice’ e ‘il complesso’: da un lato le leggi fisiche che governano la materia e l’universo e dall’altro il ricco tessuto del mondo che percepiamo direttamente e di cui siamo parte".6
John Cornwell, recensendo il libro per Spectator, ha descritto Gell-Mann come "uno dei più grandi fisici viventi, da molti indicato come il successore di Einstein. Il fatto che sia stato capace di tradurre in un’affascinante narrazione una delle aree più difficili della scienza contemporanea può senz’altro irritare sia i suoi colleghi che gli scrittori professionisti". Julian Brown, sul New Scientist, sottolinea come il fascino del libro derivi dalla quantità di argomenti che tratta: "Questa è la bellezza della complessità: comprende praticamente tutto cio che è... complesso. [...] La cosa stupefacente è il modo in cui Gell-Mann combina il tutto in un insieme coerente, mostrando come le idee di semplicità e di complessità siano strettamente intrecciate e come si applichino a una grande varietà di fenomeni".
In un’altra recensione, David Berreby del New York Times scrive: "Gell-Mann combina la mania per i minimi dettagli con un’ambizione intellettuale assolutamente controcorrente in un’era ossessionata dalle limitazioni della conoscenza. Molti scienziati non condividono la sua convinzione che in linea di principio nulla renda impossibile che un domani la scienza possa spiegare assolutamente tutto, in una singola immagine coerente del funzionamento dell’universo". E, citando Seth Lloyd, un amico e collega di Gell-Mann del Los Alamos National Laboratory: "C’è qualcosa di estremamente ammirevole in questo. So che non è un punto di vista molto alla moda, ma se sei uno scienziato, e soprattutto un grande scienziato come Murray, devi credere che gli strumenti analitici che applichi alla realtà funzionino".

Verso un mondo più sostenibile
L’ultima parte de Il quark e il giaguaro è dedicata al problema della conservazione dell’ambiente naturale e della biodiversità, tema a cui Gell-Mann è sensibile fin da bambino: "Nelle mie prime escursioni naturalistiche, mi colpiva il fatto che le farfalle, gli uccelli e i mammiferi che vedevamo appartenessero tutti a specie ben definite. [...] Ben e io discutevamo del fatto che tutte le specie sono imparentate grazie all’evoluzione, e ci piaceva immaginarcele come foglie su un "albero" filogenetico, i cui rami e ramoscelli simboleggiavano ordini, famiglie e generi. [...] Oltre a esplorare la diversità, appresi anche che in molti casi è minacciata. Eravamo, Ben e io, pionieri della conservazione. E vedevamo che le poche aree verdi attorno a New York stavano sparendo, poiché per esempio le paludi venivano prosciugate e coperte dall’asfalto. Già allora, negli anni trenta, avevamo la percezione della limitatezza delle risorse della Terra e dei gravi danni recati dalle attività umane alle comunità vegetali e animali; né ci sfuggiva l’importanza del controllo demografico, della conservazione del suolo, della protezione delle foreste e simili. Naturalmente io non collegavo ancora tutto ciò alla necessità di un’evoluzione dell’intera comunità umana verso una maggiore sostenibilità. Già allora avevo però qualche idea sul futuro del genere umano, specialmente in seguito alla lettura di H.G. Wells [...]".7
Nel corso degli anni Gell-Mann si è sempre impegnato per la difesa della natura e per uno sviluppo sostenibile, ed è stato fra l’altro uno dei fondatori del World Resource Institute. Nonostante sia ben conscio della gravità dei problemi ambientali e della crescita demografica, Gell-Mann resta un inguaribile ottimista sulle sorti dell’umanità. Come ha detto di lui il matematico Isadore M. Singer durante un convegno in onore dei suoi 60 anni, nel 1989: "Più di chiunque altro, crede fermamente che la mente e lo spirito umani possano curare tutti i mali della società".
A chi sostiene che stiamo vivendo in un’epoca di declino culturale, Gell-Mann replica: "In realtà siamo in un punto molto alto della nostra storia, ma non ce ne rendiamo conto. È vero che alcuni dei valori fondamentali della nostra società - come la pace, la calma, la pulizia, la civiltà, quelli che ci distinguono da una ‘repubblica delle banane’ - sembrano indebolirsi, ma in prospettiva credo sia una gran cosa vivere in un’epoca in cui le persone comuni hanno l’opportunità di ricevere un’educazione, di decidere della propria vita, di prendere parte alla vita politica e addirittura culturale".
Gell-Mann, che in politica si definisce un "fanatico di centro", ritiene che gli scienziati abbiano un doppio ruolo nella vita pubblica: in quanto esperti che forniscono il loro parere nelle rispettive aree di competenza e in quanto cittadini che hanno il diritto, come tutti gli altri, di esprimere le proprie opinioni e difendere i valori in cui credono. "Ma abbiamo anche la responsabilità di distinguere fra questi due ruoli, chiarendo ogni volta in che veste stiamo parlando".
Negli anni ’60 e ’70 Gell-Mann svolge un ruolo importante nelle politiche di controllo degli armamenti, cercando di convincere sia gli statunitensi che i sovietici che la difesa di ampi territori, come quelli metropolitani, dai missili balistici era "non solo molto difficile ed estremamente costosa, ma anche molto pericolosa e destabilizzante", in quanto incoraggiava gli avversari a "sferrare il primo colpo". Negli anni ’80 è quindi un acceso antagonista del progetto reaganiano delle "guerre stellari".

L’uomo che sa tutto
L’agente letterario di Gell-Mann, John Brockman, dice di lui che "ha cinque cervelli, ognuno dei quali è più intelligente del nostro". Poliglotta di genio, si dice che parli più di 15 lingue, dallo Swahili al Cinese mandarino. Lui sostiene di avere una discreta conoscenza di almeno otto lingue, ma di avere capacità limitate in tutte tranne che in francese.
"Neanche le credenziali di Gell-Mann - direttore della MacArthur Foundation, membro del Council on Foreign Relations, consulente del Pentagono sul controllo degli armamenti, collezionista di vasellame preistorico sudamericano, ornitologo dilettante, per citarne solo alcune - riescono a preparare un visitatore alla vastità della sua erudizione", scrive di lui un giornalista del New York Times subito dopo un’intervista. "Pronuncia ‘Chagas’ come un brasiliano. È stato sorpreso a correggere la pronuncia ucraina di nativi del luogo e a denigrare lo Swahili dei kenyoti. Un suo collega una volta lo ha zittito dicendogli che sì, aveva controllato con suo padre e che sì, stava pronunciando correttamente il proprio cognome".
Gell-Mann ha una memoria fotografica che gli consente di ricordare praticamente tutto ciò che legge. E le sue letture d’evasione - da cui talvolta ha tratto ispirazione nel coniare i nomi di nuove particelle - vanno da James Joyce agli antichi testi buddisti, tanto che è stato soprannominato "l’uomo che sa tutto".
Frederick Zachariasen, il fisico con il quale Gell-Mann ha pubblicato molti dei primi lavori al California Institute of Technology, dice dell’intelletto dell’amico che "è come il mio, solo 100 volte migliore". Ma racconta anche che c’è almeno una cosa al mondo che non conosce meglio di chiunque altro: il motore di un’automobile.
"Eravamo in viaggio assieme in Messico", ricorda Zachariasen, "e Murray aveva deciso di controllare da solo l’olio della sua macchina. Quando l’ho raggiunto dopo qualche istante, l’ho trovato che aveva smontato il filtro dell’aria e stava per versare un litro d’olio dritto dentro il carburatore - una cosa che avrebbe distrutto il motore, come sa quasi chiunque sia capace di guidare. L’ho fermato appena in tempo".
Al Santa Fe Institute la miscela di grandeur intellettuale e di mania per il dettaglio che contraddistingue Gell-Mann è ben nota: "Murray sprona continuamente i suoi colleghi ad andare più avanti, e a spiegare di più. Spinge coloro che hanno un bel modello teorico a collegarlo di più con la realtà", ha detto L.M. Simmons, vice presidente dell’istituto, "e a volte li spinge un po’ troppo. A volte bisogna gattonare prima di imparare a camminare. Ma il motto di Murray è: bisogna sempre pensare a camminare". Però, prosegue Simmons, "è brusco con le persone solo quando pensa che stiano sbagliando e che quello che dicono oscuri il modo giusto di guardare alle cose. Il che significa che le cose che lo rendono sgradevole a qualcuno sono le stesse che fanno di lui un grande scienziato".
E se Gell-Mann è esigente con gli altri, lo è ancora di più con se stesso: "Chi mi conosce sa quanto mi diano fastidio gli errori, come per esempio quando correggo instancabilmente le parole francesi, italiane e spagnole sui menu dei ristoranti americani. Quando mi imbatto in un’imprecisione in un libro altrui mi scoraggio: davvero potrò imparare qualcosa da un signore che si è già dimostrato in errore almeno su un punto? Se poi la cosa riguarda me o il mio lavoro divento furioso".8
 Gell-Mann ha due figli dalla sua prima moglie J. Margaret Dow, un’archeologa che all’epoca del loro matrimonio, nel 1955, lavorava all’Institute for Advanced Study di Princeton.
Rimasto vedovo nel 1981, nel 1992 sposa Marcia Southwick, poetessa e docente di inglese, che lo ha molto aiutato nella sua attività di divulgatore di genio: "Per me non è mai stato facile metter mano alla penna, forse perché mio padre criticava severamente tutto ciò che scrivevo da bambino. Se sono riuscito a portare a termine questa fatica [il libro Il quark e il giaguaro, n.d.r.], è merito di mia moglie Marcia, che ha saputo ispirarmi e pungolarmi".9

Note

1 M. Gell-Mann, Il quark e il giaguaro. Avventure nel semplice e nel complesso (1994), trad. it. di Libero Sosio, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pp. 34-35

2 Ibidem, p. 31

3 Ibidem, pp. 32-34

4 Ibidem, pp. 35-36

5 A. Sze, The Leaves of a Dream Are the Leaves of an Onion, in River, River, Lost Road Publishers, Providence (Rhode Island), 1987

6 M. Gell-Mann, Il quark e il giaguaro. cit., p. 30

7 Ibidem, pp. 32-33

8 Ibidem, p. 16

9 Ibidem, p. 17
 




Recensione

"The Quark and the Jaguar: from Simplicity to Complexity"

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L'assegnazione del Premio Nobel

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