EFFETTO FOTOELETTRICO

 

La scoperta da parte di Planck riguardante i famosi quanti si trasformò in una scoperta seria, per i fisici classici, solo quando Albert Einstein tramite lo studio del fenomeno dell’effetto fotoelettrico riuscì a formulare delle opportune generalizzazioni. Il quanto venne difatti riconosciuto solo cinque anni dopo la sua scoperta. Einstein scoprì che attraverso i quanti si riusciva a spiegare non solo l’energia associata alle radiazioni uscenti dal corpo nero, ma la loro discontinuità divenne un concetto fondamentale generalizzato a qualsiasi tipo di radiazione esistente.

Nel 1887 Hertz aveva casualmente scoperto che illuminando una placca di zinco con delle radiazioni ultraviolette il metallo si caricava elettricamente. Solo dopo che gli elettroni furono ufficialmente riconosciuti si capì che questo fenomeno era dovuto all’emissione di elettroni conseguente allo scontro di radiazioni elettromagnetiche di opportuna frequenza con il metallo in questione. Generalizzando: quando una superficie metallica viene colpita da radiazioni di abbastanza alta frequenza essa libera degli elettroni.

La spiegazione a questo fenomeno sta nel fatto che l’energia incidente delle radiazioni si trasforma in energia cinetica degli elettroni colpiti, che in conseguenza si muovono. Non sempre però essi si staccano dalle proprie orbite, in quanto l’energia cinetica deve essere superiore alla forza che tiene legati gli elettroni all’atomo. Questo valore energetico prende il nome di soglia fotoelettrica, e dipende dal tipo di metallo che è stato preso in esame. L’effetto fotoelettrico è un fenomeno che non si verifica soltanto nei metalli, ma in essi è più evidente: si verifica ogni qualvolta che un sistema materiale elementare, atomo o molecola o cristallo, è investito da radiazione elettromagnetica, di energia sufficientemente elevata. Nei gas e nei vapori monoatomici il fenomeno diventa particolarmente più semplice in quanto può essere studiato come se si verificasse separatamente su ogni singolo atomo, che è un sistema molto più semplice, e si riduce alla ionizzazione di quest’ultimo.
Per studiare questo fenomeno si può ricorrere all’uso di una tipica apparecchiatura chiamata CELLA FOTOELETTRICA.

La luce proveniente da un arco voltaico A, ricca di raggi violetti ed ultravioletti, viene convogliata su un prisma che per rifrazione le separa in componenti monocromatiche di diversa lunghezza d’onda. Regolando opportunamente l’inclinazione del prisma si possono ottenere radiazioni di particolare lunghezza d’onda. Attraverso ad una finestra di quarzo (materiale otticamente trasparente alle radiazioni ultraviolette), il pennello di determinata frequenza penetra successivamente in un tubo a vuoto spinto e colpisce una placca P fotoemittente formata da uno strato metallico, caratterizzato da un piccolo potenziale di estrazione. Gli elettroni emessi dalla placca per effetto fotoelettrico, vengono successivamente raccolti dal collettore C e di conseguenza possono originare una corrente misurabile. Al termine di questa apparecchiatura ci sono anche un sistema potenziometrico e un galvanometro.

Gli importanti risultati ottenuti dallo studio di questo fenomeno si possono schematizzare in tre fondamentali punti:

Einstein riuscì a spiegare questo fenomeno supponendo che l’energia dell’onda fosse concentrata in pacchetti discreti chiamati fotoni. Egli considerò che l’energia cinetica acquistata dagli elettroni doveva essere equivalente all’energia posseduta dai fotoni:

formula1.gif (1097 byte)

w0 rappresenta il lavoro di estrazione; Vmax rappresenta la velocità massima con cui vengono espulsi gli elettroni; n rappresenta la frequenza.
Sviluppando il secondo membro, che deve essere comunque maggiore di zero , e ponendo w
0=hn° (che è il lavoro di estrazione) si ottiene che n è maggiore di n°; si deduce che che n° rappresenta la frequenza minima, cioè la soglia fotoelettrica, che deve possedere la radiazione per estrarre un elettrone dal metallo.

L’intensità del raggio incidente determina invece il numero degli elettroni destinati ad uscire dall’orbita: più sono i fotoni incidenti più elettroni verranno a contatto con essi.

Numerose sono le applicazioni pratiche dell’effetto fotoelettrico: celle fotoelettriche nel televisore, nel cinema sonoro, nelle macchine fotografiche e anche nel campo sportivo, in tutti i casi cioè in cui si vuole evidenziare, mediante un impulso di corrente, una variazione di un effetto luminoso.


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