Rutherford e il suo modello a "planetario"

 

"Non ho la possibilità di vedere gli atomi - pensò Rutherford - poiché sono troppo piccoli; tanto meno posso andare a frugare nel loro interno; però potrei trovare un mezzo capace ugualmente di dare una risposta agli interrogativi riguardanti la costituzione interna dell'edificio atomico."

Se si lancia una palla contro un ostacolo, da come essa rimbalza e dagli spostamenti della sua traiettoria si possono trarre interessanti conclusioni sull'architettura dell'ostacolo stesso. Se la palla incontra per esempio una superficie liscia e rigida rimbalzerà indietro con veemenza, secondo un certo angolo; se l'ostacolo, invece, fosse una rete dondolante, la palla non rimbalzerebbe, ma cadrebbe nel punto d'incontro; se la parete fosse sforacchiata la palla potrebbe passare oltre senza rimbalzare.

Rutherford pensò di sfruttare proprio questo principio allo scopo di studiare la composizione degli atomi. Egli avrebbe lanciato le particelle a (atomi di elio privi dei due loro elettroni; vengono emesse da alcune sostanze radioattive con una velocità di 107 m/s, sicché possono attraversare sottili strati di materia) come proiettili contro un nutrito gruppo di atomi e sarebbe stato a vedere in che modo essi avrebbero risposto.

Per prima cosa, aveva bisogno di una adeguata palestra per questo eccezionale tiro al bersaglio; poi gli occorreva un "cannone" che sparasse i "proiettili" adatti; infine doveva provvedere al bersaglio ed al sistema di osservazione. Ed ecco come Rutherford costruì il primo "campo di tiro atomico" della storia.

Prese un campione di radio, lo rinchiuse in una capsula di piombo, munita di un piccolo foro. Le particelle Alfa sparate dal radio a grande velocità e quindi dotate di una notevole forza d'urto sarebbero passate dal foro in linea retta. Poi sistemò tutto dentro un bulbo di vetro, dal quale pompò via l'aria. Infine pose dinanzi alla capsula che funzionava da "cannone" atomico, uno schermo fluorescente applicato ad un microscopio.

Sullo schermo, nel punto colpito dalle particelle Alfa, apparve agli occhi dello scienziato un vivace scintillio. Era il segnale che i proiettili sparati dal radio arrivavano proprio in linea retta e che lungo il cammino non avevano incontrato alcun ostacolo. Era la prova del tiro. L'osservatorio si dimostrava buono; non mancava che il bersaglio. Rutherford pensò che un buon ostacolo per i suoi proiettili sarebbero stati gli atomi d’oro. Questi infatti mostravano un peso ben 197 volte maggiore di quelli dell'idrogeno perciò potevano considerarsi abbastanza consistenti da deviare e respingere i proiettili Alfa del "cannone" atomico.

Lo scienziato prese una sottile lamina di questo prezioso metallo e la mise fra il radio ed il suo schermo, quindi tornò al suo posto d'osservazione. Quello che vide lo riempì di meraviglia. Sullo schermo fluorescente appariva lo stesso scintillio di prima. Le particelle Alfa attraversavano la lamina d'oro senza subire alcun effetto. I suoi proiettili atomici continuavano a raggiungere lo schermo come se l'ostacolo posto sul loro percorso non fosse nemmeno esistito. Eppure, per quanto sottile, quel bersaglio era, da un punto di vista atomico, una muraglia di spessore eccezionale. In quella lamina d'oro c'erano tanti atomi che, se si fossero ingranditi ciascuno fino alle dimensioni di una palla da biliardo, l'ostacolo attraversato dalle particelle Alfa avrebbe avuto uno spessore di oltre cento metri.

Come poteva una barriera di questo genere essere attraversata con tanta facilità?

Mentre Rutherford rimuginava questo interrogativo, provò a cambiare posizione al suo osservatorio. Fino a quel momento, egli lo aveva mantenuto proprio di fronte al forellino della capsula contenente il radio, cioè in linea retta davanti alla bocca del suo eccezionale "cannone". Spostando lo schermo di lato, Rutherford venne a trovarsi con il suo oculare fuori dal campo di tiro; infatti, quando accostò l'occhio al microscopio, vide tutto scuro. Però in alcuni punti appariva qualche lampeggiamento. Incuriosito ed affascinato dallo spettacolo, cambiò ancora posizione allo schermo, sistemandolo ad angolo retto rispetto al fascio dei raggi Alfa, proprio di fronte al bordo della lamina d’oro.

Anche questa volta lo studioso assisté alla visione di rari lampeggiamenti in varie zone dello schermo buio. La stessa cosa, ma con minore frequenza, gli capitò di vedere anche quando sistemò il suo osservatorio dietro la sorgente di raggi Alfa.

A questi fenomeni si poteva dare una spiegazione. Il fatto che i proiettili di Rutherford potessero attraversare l'enorme barriera degli atomi dell'oro con così grande facilità, significava questo: gli atomi (ritenuti fino allora piccole sfere "solide ed impenetrabili"), non offrivano alcuna resistenza al passaggio delle particelle Alfa; si comportavano come se fossero involucri vuoti, praticamente privi di qualunque consistenza.

I lampeggiamenti laterali rivelarono un'altra verità. Non tutte le particelle Alfa passavano impunemente attraverso gli atomi dell'oro; qualcuna incontrava un ostacolo e veniva rimbalzata, ora da un lato, ora dall'altro, ora addirittura indietro, a seconda della posizione del bersaglio colpito e della traiettoria dei proiettili.

Rutherford fece anche un conteggio delle particelle che rimbalzavano rispetto a quelle che invece proseguivano il loro percorso. Trovò un risultato sorprendente: soltanto un proiettile su ottomila colpiva un bersaglio che lo deviava o lo faceva rimbalzare indietro. Lo scienziato, da questi esperimenti, poté trarre due conclusioni: gli atomi non sono completamente vuoti, altrimenti tutte le particelle Alfa, nessuna esclusa, avrebbero attraversato la lamina senza intoppi. Gli atomi dovevano invece contenere nel loro interno qualche cosa, una specie di "nocciolo" così duro e solido da respingere indietro i proiettili.

La seconda conclusione fu questa: il nocciolo degli atomi, o per chiamarlo con il nome stesso con cui lo individuò Rutherford, il nucleo, doveva essere estremamente piccolo rispetto alle dimensioni dell'atomo che lo conteneva, tanto piccolo che le probabilità di colpirlo erano soltanto una su ottomila,

Ernest Rutherford riuscì a calcolare questa estrema piccolezza: il diametro del nucleo può essere anche 50 mila volte più piccolo di quello dell'atomo che lo contiene.

C'era da impazzire. Un atomo, nel suo insieme, misura da due a quattrocentomilionesimi di centimetro. Per coprire la distanza di due centimetri occorrerebbero non meno di cento milioni di atomi, l'uno accanto al l'altro. Ora il nucleo dimostrava di avere un volume di questa dimensione un milione di milioni di volte più piccolo di quello di tutto l'atomo.

Vinto il primo stupore suscitato da tali misure, una meraviglia più grande colpì la mente degli scienziati. Di fronte alla inimmaginabile piccolezza dei nuclei, gli atomi diventavano addirittura giganteschi. Ne vogliamo un'idea? Immaginiamo di ingrandire il nucleo fino alle dimensioni di una palla da biliardo. Rispetto a questa proporzione l'atomo diventerebbe un pallone di cento metri di diametro. Ma allora, che cosa c'è fra il nucleo e l'involucro atomico esterno? Nulla: il vuoto.

Il nocciolo atomico dopo ciò che si è detto, rivelò anche un'altra importantissima dote: esso risultò carico di elettricità positiva. Le cariche elettriche di segno contrario si attraggono con grande forza, mentre quelle di segno uguale si respingono violentemente. Ecco, infatti, cosa avveniva ai proiettili positivi sparati dal radio contro gli atomi dell'oro.

  • Quando le pallottole si avvicinavano ai nuclei, la forza elettrica positiva di questi le faceva deviare. Se per caso uno dei proiettili raggiungeva il bersaglio nucleare proprio in direzione del centro, allora la pallottola veniva "frenata" e fermata prima che toccasse il nucleo e quindi costretta a rimbalzare in dietro, con eccezionale violenza, dalla forza elettrica repulsiva. Ecco la vera ragione dei rimbalzi nel campo di tiro atomico di Rutherford.

    Quando nel 1911 lo scienziato neozelandese, allora professore all'università di Manchester, annunciò al mondo le sue scoperte, le vecchie teorie atomiche della fisica e della chimica crollarono. I modelli atomici, tanto faticosamente architettati per spiegare la composizione e la struttura della materia, diventarono inservibili. Occorreva ricominciare da capo.

    Le prime domande che si posero gli studiosi, dopo gli esperimenti di Rutherford, furono queste: di che cosa è fatto l'involucro esterno degli atomi? Perché questa specie di guscio si lascia così facilmente attraversare dai proiettili Alfa, mentre in molte altre circostanze si presenta duro e impenetrabile come ad esempio in un cristallo?

    A tali interrogativi fu risposto in breve tempo, sia dallo stesso Rutherford, sia ad opera del fisico danese Niels Bohr.

    Il modello di Rutherford suppone che l'atomo si comporti come un minuscolo sistema planetario. Al centro, il nucleo che raccoglie quasi tutta la massa e tutta la carica positiva dell'atomo; intorno al nucleo ruotano, su orbite ellittiche, gli elettroni, dotati di carica elettrica negativa. La forza che lega elettroni ruotanti e nucleo è una forza elettrica, che nell'analogia con il sistema planetario, corrisponderebbe alla forza gravitazionale. Questa forza è inversamente proporzionale al quadrato della distanza, proprio come vuole la legge di Newton.

    Con quel modello, si poteva spiegare la successione degli elementi classificati nella tavola di Mendeleev e si poteva stabilire un valore del peso atomico, nonché il numero degli elettroni caratteristici di ciascun atomo dei novantadue elementi. Per Rutherford la caratteristica fondamentale di un atomo è il valore della carica elettrica del suo nucleo, cioè il suo numero atomico (assunta come unità la carica dell'atomo più semplice che è quello dell'idrogeno). La carica determina il numero degli elettroni che orbitano intorno al nucleo e di conseguenza le proprietà chimiche di ciascun elemento.

    Sulla base del modello descritto, le proprietà chimiche e fisiche di un atomo dipendono dal numero e dal movimento degli elettroni. Le reazioni chimiche normali avvengono nell’ambito degli elettroni; il nucleo non viene mai coinvolto in questi fenomeni. Il nucleo è interessato quando si passa alle proprietà radioattive: la radioattività è connessa al nucleo ed è svincolata da ogni rapporto con gli elettroni-satelliti.

    Ma questo modello incominciò subito a sollevare problemi non appena proposto. Applicando all'atomo di Rutherford le leggi classiche della teoria elettromagnetica, si giunse alla conclusione che gli atomi avrebbero dovuto essere sistemi estremamente instabili (fatto inconciliabile con l'esistenza stessa della materia che forma il nostro mondo). Infatti, la fisica tradizionale aveva stabilito che un corpo carico di elettricità e soggetto a un'accelerazione irradia continuamente energia. L'elettrone si trova appunto in questa condizione: ruotando intorno al nucleo dovrebbe irradiare energia e quindi perderla continuamente. Ciò comporterebbe il passaggio a orbite sempre più vicine al nucleo e quindi alla caduta dell'elettrone sul protone.

    Le discordanze fra il modello e la realtà non si fermavano qui. Dalla spettroscopia (derivata dalle prime ricerche di Newton) si sapeva che ogni elemento emette spettri caratteristici; in altre parole si era vista la possibilità di radiazioni in frequenze costanti. Ma ciò non sarebbe possibile se l'atomo fosse stato sic et simpliciter quello di Rutherford; infatti, se l'elettrone perdesse costantemente energia fino a cadere nel nucleo dovrebbe emettere tutte le frequenze possibili comprese nel passaggio dal suo livello massimo di energia a quello minimo. Gli spettri, in questo caso, non permetterebbero di identificare i vari tipi di atomi come invece consentono: ogni banda dello spettro corrisponde ad un elemento.

    Le ordinarie leggi della meccanica e dell'elettromagnetismo non si conciliavano con il modello di Rutherford. Ecco il problema che stimolò le ricerche in ogni direzione. Da queste indagini nacque, fra l'altro, una teoria che ebbe enormi sviluppi: la teoria dei quanti.

     

    In questo laboratorio , che si trova nello scantinato del Canterbury College in Nuova Zelanda, Rutherford fece ricerche sul modo in cui la corrente alternata di alta frequenza si propaga in un conduttore ferromagnetico